giovedì 25 agosto 2011

Romanzi a New York #63: Bartleby, lo Scrivano


Il connubio tra New York e letteratura ci ha portato in più di un'occasione a parlare di romanzi fondamentali, di valore assoluto a prescindere dalla loro ambientazione. Libri "seminali", esemplari nel loro genere come, tanto per citarne un paio, Il Giovane Holden per il romanzo di formazione o Manhattan Transfer per il romanzo corale. Stavolta è il momento di uno dei romanzi brevi per eccellenza, uno dei migliori racconti dell'intera letteratura americana, opera di Herman Melville (1819-1891).
Bartleby, lo Scrivano (Bartleby, the Scrivener) fu pubblicato la prima volta nel 1853, in due puntate, sulla rivista Putnam's Monthly Magazine (in Italia arrivò nel 1946), non ebbe un grande successo e inoltre arrivava dopo un altro clamoroso insuccesso, quello di Moby Dick che tra i contemporanei non trovò quel consenso che oggi tutto il mondo gli riconosce.
Con il titolare di uno studio legale in veste di narratore Melville ci racconta la storia di un grigio, modesto ma soprattutto inquietante impiegato di Wall Street che comincia a rinunciare, a rifiutarsi, di eseguire il suo lavoro di copista senza spiegazione alcuna se non un laconico "preferirei di no" pronunciato ad ogni domanda postagli dal suo datore di lavoro. La situazione si fa paradossale, non priva di humour, con un incedere più che moderno, anzi direi ricco di una atemporalità stilistica che abbaglia per qualità, suspense e tensione. Non suoni blasfemo, ma alcuni passaggi sembrano scritti dal miglior Stephen King, paragone che azzardo solo per sottolineare l'immortalità, l'eterna contemporaneità della scrittura di Melville (auguro a King che i suoi racconti siano ugualmente apprezzati tra 150 anni).
Bartleby è un racconto dalle molte letture, tratta di follia, di angoscia, di alienazione, di incomunicabilità, di depressione, raccontate "dall'interno", secondo il dettame dell'enigma non risolto ma che ogni lettore, se vuole, sa come risolvere secondo la propria interpretazione e le sensazioni provate nella lettura.
E c'è spazio, per quanto ci riguarda, per alcune descrizioni newyorchesi d'epoca che suonano deliziose e ironiche: "I locali del mio ufficio erano ubicati al primo piano del numero *** di Wall Street. Da un lato, affacciavano sul muro bianco di uno spazioso cortile interno munito di lucernario, che attraversava l'edificio da cima a fondo. Tale vista avrebbe potuto apparire insipida e sbiadita, priva di ciò che i pittori paesaggisti chiamano "vita", ma, se così era, il panorama che si apriva dall'altro lato dell'ufficio offriva, quanto meno, un netto contrasto. Infatti, da quella parte le mie finestre godevano della libera vista di un imponente muro di mattoni annerito dal tempo e dall'ombra perenne."
In quegli anni Wall Street si stava trasformando in quello che conosciamo tutti, ovvero il centro della finanza americana e non solo. E il contrasto tra il luogo e la figura umile dello scrivano non è forse casuale, come non è casuale lo smarrimento del suo datore di lavoro, avvocato americano tranquillo e pragmatico, di fronte allo sconcertante comportamento di Bartleby.
Invece di scrivere tutte queste parole potevo semplicemente dire: è un capolavoro, leggetelo e date Melville quel che è di Melville, uno dei tanti (troppi?) maestri morti in disgrazia e dimenticati da tutti per poi essere rivalutati dalle generazioni successive.
Bartleby lo Scrivano, Herman Melville, Grandi Tascabili Newton, 2010