mercoledì 27 aprile 2011

Romanzi a New York #46: Tropico del Capricorno


La prima volta che ho sentito parlare di Henry Miller(1891-1980) è stato nel 1985 (qui ci starebbe bene il classico "sembra ieri", ma lasciamo perdere) ed accadde guardando al cinema il film Fuori Orario di Martin Scorsese dove il protagonista, interpretato da Griffin Dunne, era seduto in un bar di New York e attirava l'attenzione di Rosanna Arquette leggendo Tropico del Cancro, un altro dei capolavori dell'autore. Qualche giorno dopo andai in libreria e, nella mia somma ignoranza dell'epoca, sbagliai libro e acquistai Tropico del Capricorno. In realtà, e questo potrebbe aver contribuito alla mia svista, Tropico del Cancro è ambientato a Parigi e Tropico del Capricorno proprio a New York come il film.
Fatto sta che mi sono imbattuto in uno dei romanzi più controversi e travagliati della storia della letteratura americana e che, con piacere, ho riletto di recente. Un'autobiografia romanzata, furiosa e furente di un autore che supera ogni convenzione letteraria conosciuta sino a quel momento (siamo nel 1938 e l'ambientazione è negli anni 20). Nelle pagine si mescolano vita privata, analisi sociali, introspezioni psicologiche, teorie filosofiche su vita quotidiana e su temi assoluti, il tutto condito da dosi abbondanti di sesso con descrizioni esplicite, quando non ruvide e viscerali.
Un ego straordinario quello di Miller, capace di creare grandi divisioni e di provocare profonde riflessioni sulla nostra esistenza. Nelle sue parole non c'è pietà per nessuno, anzi forse è più esatto dire che c'è pietà per tutti, uomini e donne che si affannano in una vita senza senso. Perché a lui non è la vita che interessa: "Trovai che quanto avevo desiderato, tutta la vita, non era vivere - se si chiama vivere ciò che fanno gli altri - ma esprimermi".
Miller "legge" le persone, i luoghi, gli ambienti come fossero libri, trangugia il mondo circostante e lo vomita in parole: "Immagino che le strade d'America si uniscono tutte a formare un'enorme latrina, una latrina dello spirito in cui tutto è assorbito e ridotto a merda imperitura. Sopra a questa latrina lo spirito del lavoro intesse una magia: palazzi e fabbriche spuntano fianco a fianco, polverifici e stabilimenti chimici e acciaierie e sanatori e prigioni e manicomi. Tutto il continente è un incubo che produce la più gran miseria per la più grande massa".
L'autore si confronta con la città e i suoi abitanti senza tanti complimenti, nulla lo mette in soggezione ma in alcuni, comunque rari, momenti c'è della tenerezza verso alcuni luoghi, come in occasione di una lunga dissertazione su Humboldt Street o quando descrive dove abitava da ragazzo, a Brooklyn: "C'era una stradetta, lunga un isolato appena tra Grand Street e North Second Street, chiamata Fillmore Place. Questa stradetta stava di sbieco, dinanzi alla casa di mio nonno, era di sua proprietà e ci abitava... Era la più incantevole strada che abbia mai visto in vita mia. Era la strada ideale per il ragazzo, l'amante, il maniaco, l'ubriacone, il furfante, il libertino, il sicario, l'astronomo, il sarto, il poeta, il politico. Insomma era il tipo di strada che era, contenente tali rappresentanti della specie umana, ciascuno un mondoi in sé e tutti viventi assieme in armonia e disarmonia, ma insieme..."
La New York mainstream, quella dei grattacieli, delle grandi strade subisce un trattamento, diciamo così, meno lusinghiero: "Broadway pazzamente illuminata come sempre e la folla densa come melassa. Ficcarcisi dentro come uan formica e farsi trascinare via. Lo fanno tutti, alcuni per un buon motivo altri senza motivo affatto. Tutta questa spinta, questo movimento rappresenta l'azione, il successo, il farsi strada. Fermati a guardare le scarpe o le camicie fantasia, il nuovo cappotto autunnale e le fedi nuziali da 98 centesimi l'una. Una porta sì e una no una tavola calda... Broadway proprio questo vuol dire, ed è proprio nulla, solo una corsa di glline pidocchiose."
Le opere di Miller, da autore maledetto e iconoclasta quale era, hanno avuto una vita difficilissima. Tropico del Capricorno fu stampato a Parigi nel 1939 in lingua inglese e importato clandestinamente in America. Solo nel 1961, dopo una sentenza del Dipartimento di Giustizia che stabilì che il contenuto non poteva essere considerato osceno, il libro venne ufficialmente stampato e distribuito negli USA. In Italia non è che andò tanto meglio, anzi. Nel 1961 la traduzione italiana (in volume unico con Tropico del Cancro, quella dell'immagine a corredo del post) fu stampata da Feltrinelli in Francia e introdotta in Italia anche stavolta quasi clandestinamente, con lo stratagemma di "edizione destinata al mercato estero". Solo nel 1968, dopo apposita sentenza, il libro è finalmente messo in cicolazione. A titolo di curiosità, il tribunale così decise: "Dovendosi escludere sul piano filosofico che l'arte possa determinare un abbassamento spirituale, quest'opera di Henry Miller è stata prosciolta in istruttoria dal tribunale Civile e penale di Milano con sentenza in data 13.7.1968".
Viva l'Italia.
Tropico del Capricorno, Henry Miller, Oscar Classici Moderni, Mondadori, 2010